Ora mi chiamano Flora, ero in realtà Clori: la lettera

greca del mio nome fu guastata dalla pronuncia latina.

Ero Clori, ninfa dei campi felici dove hai udito

che in passato ebbero la loro dimora uomini fortunati.

Dire quale sia stata la mia bellezza, sarebbe sconveniente

alla mia modestia: ma fu essa a trovare come genero per mia madre un dio.

Era primavera; vagavo; Zefiro mi vide, cercai di allontanarmi;

m’insegue, fuggo; ma egli fu più veloce.

E Borea, che aveva osato rapire la preda dalla casa di Eretteo,

aveva dato al fratello piena licenza di rapina.

Tuttavia fa ammenda della violenza col darmi il nome di sposa,

e nel nostro letto non ho mai dovuto lamentarmi.

Godo d’una eterna primavera; è sempre splendido l’anno,

gli alberi hanno sempre le fronde e sempre ha pascoli il suolo.

Possiedo un fiorente giardino nei campi dotali,

l’aria lo accarezza, lo irriga una fonte di limpida acqua:

il mio sposo lo ha riempito di copiose corolle, e ha detto:

“Abbi tu, o dea, piena signoria sui fiori”.

(Fasti, V, vv. 195-212)