VENTIQUATTRESIMO APPUNTAMENTO CON LA RASSEGNA LETTERARIA SUL “DE REBUS SICULIS CARMEN AD HONOREM AUGUSTI”
Cultura

VENTIQUATTRESIMO APPUNTAMENTO CON LA RASSEGNA LETTERARIA SUL “DE REBUS SICULIS CARMEN AD HONOREM AUGUSTI”

Nella trattazione della scorsa settimana abbiamo lasciato la delegazione salernitana al capezzale di Enrico VI, ammalato con un esercito in difficoltà sotto le mura della città di Napoli.

I napoletani, avendo preso coscienza della condizione disastrosa dell’esercito tedesco, decidono di fare delle sortite per sconfiggere definitivamente l’imperatore e caccialo dal regno, se non ucciderlo proprio per la sicurezza futura. Il poeta introduce codesta particola: “Exeundi proibicio” (“Divieto di uscire”) senza dare onore al valor militare dei partenopei per aver resistito al forte esercito tedesco, condotto dall’imperatore in persona; il successo lo attribuisce al molto oro che Tancredi ha messo a disposizione del conte Riccardo d’Acerra per corrompere i soldati teutonici in assedio: <<Obnebulant socios regia dona tuos>> (“I doni del re accecano i tuoi compagni”) (v.511). Infatti, col discorso del conte, responsabile della difesa di Napoli, il poeta fa un’accusa precisa: <<In densis latitans philomena rubetis non timet adverso mitis ab ungue capi, cum domino mundi quis enim contendere bello ausus erit,vel quis obviet ense pari? Si placet, o cives, meliori mente fruamur: pro nobis aurum pugnet et arma ferat>> (“Nascosto nei fitti roveti il mite usignolo non teme di essere preso da artigli nemici. Chi mai dunque col signore del mondo oserebbe combattere e chi potrebbe ad armi pari opporglisi? Se volete, o cittadini, serviamoci di miglior consiglio: al posto nostro sia l’oro a combattere e a portar le armi”) (vv.492-497). Per Pietro è corruzione.

 

Nel discorso, da una parte emerge un consiglio a essere prudenti che è anche la qualità riconosciuta da tutti al conte; ma dall’altra, il poeta presenta il suo discorso come vigliaccheria, e Riccardo stesso come un corruttore dei soldati, i quali avrebbero dovuto consigliare allo Svevo di togliere l’assedio prima che la malattia, peggiorasse impedendogli di ritornare in Germania.

In realtà, è pur vero che Re Tancredi, ha messo a disposizione di Riccardo d’Acerra somme ingenti per il consolidamento del suo potere sul regno normanno; ma sono denari serviti, da una parte, a rabbonire i baroni del feudo, in fermento a causa della successione dinastica al trono siciliano; dall’altra, alle spese contingenti legate ad armamenti e a creazioni di strutture difensive ad acta, necessarie per un impresa bellica tanto poderosa contro l’Imperatore. Pertanto, la sconfitta imperiale è dovuta alla capacità difensiva della città di Napoli, all’ingegno militare del conte acerrano e all’epidemia che ha colpito lo stesso imperatore; e non, invece, alla corruzione dei soldati imperiali, come vuol far credere il poeta.

 

Anche l’arcivescovo di Salerno, Niccolò d’Aiello, che per il poeta è presule solo di nome perché sta svolgendo un ruolo, quello militare, che non gli appartiene, fa la sua arringa ai difensori partenopei. Il poeta, fra le altre cose, fa dichiarare al d’Aiello, queste parole: <<Si sapitis cives, comes exeat, instet in armis: laus est pro domino succubuisse suo. Parcite parcendis electis parcite vestris,>> (“Se avete senno, o cittadini, esca il conte,  s’esponga lui in armi: motivo di lode, infatti l’essere morto per il proprio signore. Risparmiate chi risparmiar si deve, risparmiate i vostri uomini migliori”); (vv.498-500). Niccolò d’Aiello, quindi, rivolge lo stesso invito ai napoletani a non uscire dalle mura; e anche per l’arcivescovo il poeta ha parole di disprezzo: <<Puer actu>> (“Puerile nell’agire”); (v.506). e rimprovera i cittadini di Napoli <<Pecudes…alieno>>; cioè, di farsi consigliare da uno “straniero” (“alieno”) (v.508), che non è granché come pastore di anime. Infatti, il d’Aiello per i napoletani è uno straniero, poiché è arcivescovo di Salerno, e solo motivi politi lo trattengono a Napoli: salvaguardare la dinastia normanna sul regno di Sicilia, di cui suo padre Matteo è cancelliere. Questa è la situazione bellica sotto le mura di Napoli, poco prima che Enrico VI, togliesse l’assedio.

 

Ricordo ai lettori che la traduzione dal latino è del prof. Carlo Manzione, dal libro “De rebus siculis carmen ad honorem Augustia cura di Mariano Pastore;  mentre l’articolo è tratto dal libro dell’autore: <<Pietro da Eboli, Vate latino della letteratura italiana>>, de “L’Aurore edizioni”.