Quindici anni fa il Sisma devastante dell’Aquila: il ricordo di Angelo Voza
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Quindici anni fa il Sisma devastante dell’Aquila: il ricordo di Angelo Voza

6 aprile 2009 – 6 aprile 2024 … 15 anni da quel dolore.

Era il 6 aprile 2009, alle ore 03:40 del mattino, squilla il telefono: “papà con i colleghi siamo tutti giù in Piazza d’Armi perché qui in città è crollando tutto. Sto bene non ti preoccupare adesso dobbiamo aiutare le persone”.

Il tempo di accendere la tv e l’Ansa batte la notizia: “fortissima scossa di terremoto in Abruzzo epicentro vicino L’Aquila. Molti danni e si registrano molti palazzi crollati”.

Non ci penso due volte. Pochi minuti e sono in auto con acqua e coperte, direzione L’Aquila.

Non ricordo quando ho impiegato, ricordo solo che ho spento la radio perché le notizie che giungevano erano terribili ed io ero concentrato alla guida incurante degli autovelox.

Giungo in zona Coppito nei pressi della nostra Scuola Ispettori dove alcune pattuglie deviano il traffico. I colleghi mi lasciano passare e raggiungo il parcheggio interno.

Cerco mia figlia e i suoi colleghi. Tra calcinacci, muri crollati e un silenzio irreale ci abbracciamo senza parlare.

Da quel momento è solo un “servire le nostre Fiamme e la nostra bandiera ”.

La sensazione terribile era che ogni pochi minuti la terra tremava e i palazzi già compromessi potessero crollare del tutto mentre vedevo persone correre a ripararsi ad ogni scossa. Erano terrorizzati.

Per me sarà stata l’adrenalina o l’analoga esperienza che ho vissuto nel 1980 a Teora dove con amici e volontari eravamo impegnati a scavare tra le macerie per recuperare corpi. Momenti ed attimi vissuti come in un film già visto.

Sono passati 15 anni da quel giorno e ogni ricordo diventa dolore.

A mia figlia (come anche ai suoi colleghi) che si è distinta nel dare il suo contributo, le sono state concesse delle Onorificenze dal Ministero degli Interni e dalla Croce Rossa Italiana e ha voluto ricordare quei momenti con un racconto che riporto di seguito.

 

“” E poi silenzio.

Non so quanto è durato, secondi lenti come ore. I miei occhi si sono aperti sul buio che mi circondava. Ho toccato il mio viso; ero viva.

Tante sensazioni, emozioni, ma non avevo paura perché l’unica cosa da fare, in quel momento era non averne.

Troppe domande per cercare dl capire cosa fosse successo fuori dalla nostra casa, dalla nostra caserma, Solo tanto rumore di calcinacci caduti, tanta polvere e poca luce.

I bagliori blu delle ambulanze in lontananza, un solo pensiero: fuori era cambiato tutto. Tutto non era più come prima. Tutto non c’era più.

Il buio ci ha accompagnati in quella notte fredda, poche coperte prese in fretta per ritrovarci nella nostra Piazza d’Armi, ora Piazza 6 Aprile 2009, per contarci, per restate uniti, mentre alto su di noi si ergeva il nostro motto “NEC RECISA RECEDIT”.

I nostri occhi guardavano il cielo bello e luminoso come non mai quella notte e cercavamo qualcosa; cercavamo un perché.

Le luci del mattino hanno accarezzato Ie nostre mani, scaldandole, e con esse sono corse veloci le prime notizie della realtà che fino a quel momento, immaginavamo soltanto.

La terra da quella maledetta ora delle 3:32 non ha mai smesso di tremare, il cielo era l’unico punto fermo che avevamo sopra di noi, ed è da lì che abbiamo trovato la forza e il coraggio di rimanere in piedi.

L’alba era sorta, arrivano i primi morti, le prime ambulanze e i primi carri funebri, i quali riempivano la nostra autorimessa adibita ad obitorio. L’unico sentimento che mi passava dentro, era quello di andare, di andare lì, perché dovevo aiutare, lo volevo più di ogni ultra cosa.

Il mio e il viso di altri come me coperti da mascherine bianche, scoperti solo gli occhi. Occhi che parlavano e che scorgevano già cucite sulla nostra pelle Ie Fiamme Gialle.

Sguardi, tanti sguardi tra noi colleghi, non serviva altro.

Le parole, Ie nostre braccia forti a sostenere, erano per tutti i congiunti i quali avevano bisogno di ritrovare vivo, steso sotto lenzuola bianche, un figlio, un padre, una madre.

Ho passato tanti giorni così, tra tanti visi e tanti occhi che mi chiedevano aiuto, quasi chiedevano un miracolo, ma non potevo fare niente, solo trovare la forza di continuare il mio compito.

Erano più di trecento, non so quanti ne ho contati, ricontati e numerati.

Ho pulito i loro volti lividi, che non erano più volti, per cercare di togliere quella sofferenza impressa sui lineamenti ormai perduti.

Li ricordavo tutti, non mi restava che accompagnare tutte quelle persone, che tra le lacrime, mi descrivevano quei visi e quei sogni spezzati.

Troppi i bambini, troppo piccoli per trovarsi Iì distesi e freddi, avevano il volto degli angeli, intatti. Ci penso sempre.

Un padre mi ha chiesto di aprire la bara dove avrebbe per sempre dormito I’amato figlio, l’ho fatto. Mi ha consegnato un orologio, un telefono cellulare e mi ha chiesto di riporli accanto alle gelide mani di quell’anima volata via lontano. Quattro giorni cosi tra Ie anime perdute.

È il mio ricordo, è la mia unica preghiera.

Sono passati mesi da quel giorno, passeranno gli anni e il ricordo rimarrà sempre vivo dentro me.

E nel silenzio di quella notte che ha portato tutto via con sé, la luce della speranza si è fatta spazio. Altre vite sono nate e rinate tante altre ancora, rendendo migliori nella sofferenza la vita di tanti. Anche la mia.

(Lucia Filomena Alessandra Voza) “”

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