OTTAVO APPUNTAMENTO CON LA RASSEGNA LETTERARIA SUL “DE REBUS SICULIS CARMEN AD HONOREM AUGUSTI”
Cultura

OTTAVO APPUNTAMENTO CON LA RASSEGNA LETTERARIA SUL “DE REBUS SICULIS CARMEN AD HONOREM AUGUSTI”

Se la particola I contempla il passaggio simbolico dello scettro Siciliano tra Ruggero II ed Enrico VI grazie a Costanza d’Altavilla, la seconda, con la terza particola, presenta l’antefatto che precede la guerra civile fra “consanguinei”, che terminerà con l’incoronazione dello Svevo alla morte del piccolo re Guglielmo III e l’imprigionamento e/o morte di tutti i nemici di Enrico VI.

Mi limiterò a commentare solo sei versi della particola II i più significati.

La successione al trono del regno di Sicilia inizia dopo la morte di Guglielmo II il Buono che muore l’11 novembre del 1189 senza lasciare eredi: <<Post obitum, formose, tuum, que sceptra gubermet (v.35)>> (“Dopo la tua morte, o leggiadro, non hai un discendente”).

Il poeta ricorda che per evitare la guerra fratricida sarebbe stato sufficiente rispettare il giuramento di sottomissione a Costanza fatto a Troia nel 1188 dai maggiorenti del regno: <<Nam satis est iurasse semel, te prole carente, quod tuus in genero sceptra teneret avus (vv.43-44).>> (“Bastava, infatti, il giuramento dato perché, privo tu di figli, il tuo avo conservasse nel genero lo scettro”) per conservare la pace. Purtroppo, non fu cosi. Alla morte dell’ultimo regnante normanno, infatti, il poeta si rammarica che il leggiadro Re non potendo avere un discendente diretto, alla sua morte sarebbero sorte lotte cruente: <<Inglomerant sese prelia, preda, fames, furta, lues, pestes, lites, periuria, cedes infelix regnum diripuere sibi (vv.49-51)>> (“Intensi infuriarono combattimenti, ruberie, carestie, furti, flagelli, pestilenze, liti, falsi giuramenti e stragi sconvolsero il misero regno”) a danno del popolo.

Nel 1189 si crearono due fazioni, più altre due, in lotta fra loro, per la successione al trono del Regno di Sicilia. L’ago della bilancia furono i baroni, proprietari di vasti feudi, che con i loro eserciti di masnadieri appoggiavano l’una o l’altra fazione e a volte essi stessi aspiravano al trono.

I loro enormi feudi erano uno stato nello Stato; mostrarono sempre una perniciosa resistenza alla Sovranità costituita perché essa non avesse ingerenza nella gestione dei feudi; e quando quest’ultima riusciva a limitare i loro atti insubordinati grazie alla creazione dei “defetari”, essi prevaricavano sui sudditi del regno con bande di malviventi (i futuri briganti) le quali avevano il compito di alterare la pace sociale angariando e flagellando gli abitanti del feudo con saccheggi; distraendo le Forze dell’Ordine, impedivano allo Stato il “controllo” del feudo del loro barone.

Come ho avuto modo di riportare altrove[1], in questo periodo nasce il “brigantaggio”, uno strumento in mano ai baroni contro i governi per tenere in scacco le forze dell’ordine per i motivi sopra addotti. Possiamo affermare, quindi, che il brigantaggio meridionale è una creazione dei baroni per alterare lo status quo dello Stato a proprio vantaggio; è una “forza clandestina”, come la definisce Davide Winspeare, i cui atti predatori ricadevano solo su di essi, ma non sui baroni che li ordivano. I baroni del regno si sono serviti del brigantaggio come propria ordinaria milizia accordando loro la protezione e asilo per difenderli dalle persecuzioni del governo; così facendo hanno minato la fiducia della popolazione nelle forze dell’ordine. In questo periodo, furono i  briganti a fomentare guerre, a favorire ruberie, epidemie, saccheggi e stragi a danno del Regno, ma a favore di feudatari senza scrupoli (vv.49-51).